La brand identity di Cuciverba | Cuciverblog
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logo di Cuciverba, payoff "La stoffa nei testi" e icona con un paio di forbici

La brand identity di Cuciverba: naming, payoff e logo

Se creare la brand identity altrui è un lavoro complesso e richiede studio, cura ed empatia, definire la propria lo è ancor di più. Almeno per me, che per indole sono riservata e dunque fatico a promuovere me stessa. In questo blog post ti racconto come è nata l’identità di Cuciverba, ovvero la mia in veste di professionista.
Una volta stabiliti il mio target e i servizi, emersi i valori e la personalità della mia attività, dovevo concretizzare la mia brand identity, in primis con naming e payoff, che fanno parte della verbal identity assieme ai testi e al tono di voce.

Avrei potuto anche mantenere il mio nome e cognome perché non poche persone del mio stesso mestiere compiono questa scelta. Più identità di così, in effetti!
Ma il mio cognome – ho riflettuto poi – quasi mai è di immediata comprensione e, spesso, devo fare lo spelling: «G come Genova, H di hotel, I di Imola, S di Savona, I di Imola». Un po’ una solfa!
Mi è capitato più volte, negli anni, di ricevere una mail, dopo il contatto telefonico, con scritto: all’attenzione di Silvia TISI (santo cielo!), BISI (risi e bisi qui in Veneto sono un piatto della tradizione), e via dicendo con altre involontarie storpiature che nemmeno Emilio Fede con i cognomi.

Allora decisi di occuparmi del naming, e che cavolo sono una copywriter! E non mi toccherà nemmeno fare lo spelling, vuoi mettere? Ah, che sollievo.
Però non è stato proprio come bere un bicchiere d’acqua: ci ho messo circa due mesi tra naming e payoff.

 

Cosa significa il naming per me

Il naming mi fa andare fuori di testa, in tutti i sensi: mi esalta il suo processo creativo che mi risucchia cervello ed energie. Non riesco a mettere in pausa i neuroni quando sto facendo naming: continuano a frullarmi parole e connessioni, dalla mattina alla sera. Stacco solo quando dormo, per dire.
Ok, ma cos’è? È un’attività, a mio parere, sottovalutata e difficile da descrivere: posso pensarla come l’archeologia che incontra la mixology. Da una prende lo studio al dettaglio, prodromico allo scavo che poi dura sì giorni e giorni ma ti porta sempre a un “tesoro”. Dall’altra, la conoscenza delle materie prime (nel mio caso le parole) che, unite insieme, creano un gusto unico. Per me il naming è come il primo cocktail nato in Mesopotamia 5mila anni fa, scoperto nel 2005 (una specie di “grog”, un miscuglio di vino, birra, succo di mele e miele). Detto così però non so se suona molto bene. 🙂

cubetti di legno con impresse le lettere dell'alfabeto

Cos’è il naming

Metafore a parte, il naming è la creazione del nome di un’azienda, di un’attività, di un(a) professionista ma anche di un prodotto, un servizio, un progetto.
Assieme al logo, il brand name è il primo elemento che si presenta (in questo caso non solo visivamente, ma anche a voce). Lo spiego anche qui nel mio sito.
Per questo motivo è necessario che sia un nome unico, coerente con l’identità del brand, memorabile, facile da scrivere e pronunciare, privo di significati negativi, libero da registrazioni. In una, o due parole al massimo, deve racchiudere l’essenza e l’identità del brand (valori, punti di forza, obiettivi,…). E poi deve essere duraturo. Il nome infatti deve proiettarsi nel futuro – non può guardare solo il presente di un’azienda – e considerare quello che sarà o potrà essere. Perché la registrazione del marchio dura 10 anni, e sono tanti.
Facile vero il lavoro di naming?

Beh, c’è chi pensa di avere le competenze e – forse con ingenuità – si autonomina generando, ad esempio, nomi banali, difficili da pronunciare o da scrivere; oppure già registrati per la stessa categoria di prodotti e servizi; magari offensivi e inappropriati in una lingua che fa parte proprio del mercato di riferimento.
Immagineresti mai che una parola comune come “curva” in rumeno voglia dire prostituta? Ecco perché è importante af-fidarsi a una persona competente, che fa tutte le indagini possibili quando studia il tuo brand name. Anche perché il renaming (e il rebranding) è una vera e propria impresa.

Come ho creato il nome Cuciverba

Ma torniamo a Cuciverba. Creai una miriade di nomi a tema copy ma scoprivo che ne esistevano già di simili, o non mi convincevano del tutto, oppure poco dopo mi stancavano. In un momento di lucida follia pensai anche a Ghisiwriter. Bello sì, ma dà l’idea che la scrittura sia una cosa facile-facile (easy), una quisquilia. Devo ammettere però che l’immagine di me con il vento tra i capelli, a gustarmi la libertà (alla “easy rider” appunto) di questa nuova avventura lavorativa, dopo anni di lavoro dipendente, mi allettava parecchio. Però la pellicola finisce male, ma molto, quindi meglio di no. Lasciai perdere, anche perché che incubo sarebbe stato fare lo spelling di Ghisiwriter?

Siamo da capo, in stallo. Vabbè, la faccio breve. Pensai allora di utilizzare la metafora della stilista: dà l’idea dello studio, del design, del su misura (ok, è un po’ inflazionato), della qualità, della sapienza artigiana. Poi, la scrittura non è tutto uno sbrogliare periodi, tessere e ricamare parole, tagliare frasi per ricucirle in un’altra collocazione? Non c’è nulla di immediato nella scrittura. E la parola “testo”, ad esempio, deriva proprio da “tessuto”.
Dovevo quindi unire il concetto sartoriale a quello delle parole.
Da appassionata di enigmistica da quando sono adolescente, grazie all’imprinting della mia famiglia, ho avuto l’insight (il momento dell’illuminazione creativa descritto da Annamaria Testa, famosissima copywriter) con la parola “Cruciverba”. Taglio la “r” e ottengo “Cuciverba“. Sì, cucio le parole!
È un nome immediato, rimanda a un lavoro meticoloso e artigiano, su misura. Perfetto. Non mi tocca nemmeno fare lo spelling, al massimo specifico “senza la R”, non si sa mai. È il mio nome, eureka!

Inoltre sono una copywriter inclusiva, cioè scelgo di utilizzare il linguaggio inclusivo, che non discrimina e non esclude le persone. Mi piace dunque che nel mio nome ci sia l’elemento del filo, del cucito, di qualcosa che “mette insieme”. Il filo infatti, seppure sottile, unisce, tesse, avvicina e unisce lembi.

sopra un tavolo, una macchina per scrivere Olivetti degli anni 40 e un foglio con la scritta "Cuciverba, la stoffa nei testi" e l'icona di un paio di forbici. Sul tavolo anche una radio degli anni 60, delle candele e libri a tema copywriting.

E il payoff cos’è?

Ora mancava il payoff, utile a specificare e precisare caratteristiche ed elementi della mia attività. Do una definizione di payoff anche nel mio sito, in questa pagina ma so che chi legge spesso si lascia cogliere da pigrizia e quindi lo riassumo anche qui.
Il payoff è una breve frase, di solito si utilizzano al massimo 7 o 8 parole però meno sono, meglio è.
La frasetta è molto potente. Racchiude in quelle poche parole mission, vision, valori e identità del brand ed è memorabile. Racconta in sintesi chi sei, cosa, come e perché lo fai, andando oltre al naming.
Nella nostra vita incontriamo una miriade di payoff. “Dove c’è Barilla c’è casa”, “Più bianco non si può”, “Just do it”, “Impossible is nothing” e via così. Te li ricorderai di certo.

Il payoff di Cuciverba

Se per il naming ci vollero un sacco di tempo e parecchie pagine di carta riempite da mappe concettuali, con il payoff ce ne vollero ancora di più. Anche in questo caso, pagine e pagine di quaderno a quadretti con la spirale scritte e scarabocchiate, ma anche appunti del cellulare compilati al volo perché mi era balenata un’idea e non avevo il quadernone a portata di mano.

E pure in questo caso, di nuovo, ne ho scartati parecchi finché sono arrivata al podio dei payoff, dopo brevi periodi in cui li lasciavo decantare per capire se, rileggendoli, funzionavano ancora.
Sì, ora due funzionavano ma ero ancora indecisa.
Lanciai così un sondaggio tra parentela, amiche e amici stretti (grazie per la partecipazione!). Raccolti i risultati, mi ascoltai e scelsi: “La stoffa nei testi“.
Volevo fare capire da subito il valore, il potere e la potenza delle parole: si dice “avere la stoffa” per indicare una capacità. Scelsi “testi” e non “parole” perché, come abbiamo visto sopra, l’etimologia di testo è tessuto e dunque calzava ancora meglio con la metafora sartoriale di “stoffa” e “Cuciverba”.

Il logo di Cuciverba

A questo punto mancava solo il logo. Valutai assieme al graphic designer Giovanni Tondini, che lo ha realizzato, di rappresentarmi con le forbici perché l’azione regina del copywriting è tagliare il superfluo. E come copy inclusiva taglio via stereotipi, cliché, bias, pregiudizi, razzismi, discriminazioni, sessismi,…
Le forbici, che ho da anni tatuate sopra il malleolo, mi rappresentano più del filo. E sono uno dei simboli della sartorialità. Inoltre Tondini ha creato nell’icona le lettere C (inziale di Cuciverba) e V (come verba): capolavoro del “mago dei loghi” (come lo definisco io) e grande esperto di font.

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Silvia
silvia@cuciverba.com


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