01 Lug La leadership inclusiva fa bene alle persone e alle aziende
Mi piace poter condividere quello che imparo, perché è bello non tenersi tutto per sé. Così in questo articolo parlo del corso sulla leadership inclusiva (concluso a maggio) che mi ha trasmesso molto, e a mio parere è utile a ogni persona, e non solo nella vita professionale.
Perché l’ho frequentato? Mi interessavano i contenuti, anche se non ricopro ruoli di leadership (sono freelance), né sono consulente di Diversity&Inclusion (da ora abbreviata in D&I), ma lavoro con le parole, che scelgo siano rispettose e prive di pregiudizi, inclusive. Sono infatti una copywriter attenta al linguaggio inclusivo.
Il video di introduzione al corso
Questa esperienza mi ha fatta riflettere ancor di più sull’importanza di un ambiente di lavoro in grado di coinvolgere tutti gli individui, e che sa riconoscere e valorizzare le differenze e le peculiarità di ciascuna persona (fornitrice, collaboratrice, dipendente o cliente). Ecco perché non serve essere “boss” o titolare d’azienda per essere leader, ma un essere umano che interagisce con altri esseri umani.
Due cose in particolare hanno lasciato il segno nella mia memoria. La prima, se si parla di inclusione nel posto di lavoro, si deve considerare anche il gruppo della maggioranza, non solo le minoranze meno rappresentate e discriminate. Perché l’obiettivo è appunto rispettare e valorizzare ogni persona, facendo in modo che lo percepisca, senza escluderne proprio nessuna.
Seconda cosa, la leadership inclusiva parte dall’autoconsapevolezza, dei propri limiti, dei propri errori, e dei propri pregiudizi inconsci. Come per il linguaggio inclusivo (qui il link al mio articolo sul tema), anche questo è un percorso, sincero e profondo, di crescita, che in tal caso mira a raggiungere gli obiettivi aziendali e a far progredire la carriera altrui. È insomma una leadership al servizio, di influenza sociale, e non necessariamente collegata a ruoli apicali.
I tratti distintivi della leadership inclusiva
La persona che la coltiva si impegna con coerenza per l’inclusione, non solo con le parole ma anche con i fatti: affronta le sfide quotidiane, è consapevole dei propri pregiudizi (anche inconsci), è curiosa, sviluppa l’intelligenza culturale (la capacità di relazionarsi con persone di culture e usanze diverse) e promuove la collaborazione nei team per raggiungere obiettivi prefissati. Caratteristiche che, se non sono presenti, possono essere allenate. Non è un percorso immediato e privo di errori, ci mancherebbe!
Anche per questo motivo, è importante per la leadership inclusiva chiedere spesso dei feedback, per avere un riscontro sincero e costante, con l’obiettivo di capire se si sta andando nella giusta direzione. Pure la comunicazione è fondamentale, che deve essere chiara, trasparente, sincera, quotidiana, basata sull’ascolto empatico e attivo, e sul dialogo. Le parole sono rispettose, non discriminanti né offensive.
Come funzionano i pregiudizi impliciti
Perché creare un ambiente inclusivo in azienda
Mettere in pratica la D&I è urgente ed è la cosa giusta da fare, dal punto di vista etico e morale: i cambiamenti globali e demografici sono sotto i nostri occhi e richiedono nuovi approcci.
Lo testimonia pure il Talent Trends Report 2021 di Randstad, che inserisce la cultura della diversità e dell’inclusione tra le dieci tendenze per la gestione dei talenti.
E poi, entro il 2025 il 75% della forza lavoro saremo noi millennial, che cerchiamo luoghi di lavoro inclusivi ed equi. Valori che fanno parte ancor di più del Dna della Generazione Z (persone nate fra la metà degli anni ’90 e il 2010).
Serve dunque un cambio di paradigma nelle imprese volto a:
– favorire l’accesso delle donne ai vertici, per abbattere il soffitto di cristallo, e delle persone appartenenti a minoranze;
– garantire salari equi (eliminando pure il gender pay gap);
– investire nella formazione della forza lavoro e della leadership, anche in ottica inclusiva;
– attuare pratiche e modelli organizzativi per l’equità e la D&I;
– tutelare la flessibilità per il bilanciamento di vita e lavoro (lo smart working a chi lo richiede, politiche di supporto alla genitorialità,…);
– modellare i luoghi di lavoro sui bisogni delle persone (devono essere accessibili per chi ha disabilità; saper rispondere a esigenze religiose – come orari flessibili e una stanza per pregare durante Ramadan -; prevedere menu che rispettano le scelte e le necessità alimentari delle persone, ecc.,…);
– esporsi pubblicamente (con coerenza) a favore della D&I.
Questi sono sono solo alcuni esempi per testimoniare che non basta dire alle Risorse Umane di “aggiungere diversità” nell’azienda, se poi non segue un reale impegno affinché le persone vengano rispettate nei bisogni e nelle peculiarità. Bisogna poi far seguire anche la partecipazione attiva nei team e nei board per un coinvolgimento efficace ed effettivo.
Come prendere sul serio la D&I sul posto di lavoro, Ted Talk di Janet Stovall
Consideriamo che una giornata lavorativa, di solito, è di 8 ore (talvolta anche di più, oppure meno per un part-time): è quindi necessario stare bene e sentirsi a proprio agio anche con chi si condivide tempo e spazi, senza dover fingere di essere ciò che non si è, per vergogna o paura, ed avere l’opportunità di esprimere i propri bisogni, pareri, valori. È fondamentale sapere che contano e sono presi in considerazione. Solo così recarsi al lavoro non è un peso, fonte di stress e può far sentire la persona davvero parte di un’azienda che sa apprezzarla, coinvolgerla e valorizzarla per ciò che è e la propria unicità, rispettandola. Pure garantendole la sicurezza sul lavoro, ma questo è un capitolo a parte che però, purtroppo, si vede anche dai fatti di cronaca, alcune aziende non tutelano a sufficienza.
Insomma, l’azienda deve far capire che tiene a chi lavora come essere umano, non come un mero ingranaggio sostituibile.
Quanto è frustrante, umiliante e stressante, ad esempio, quando una persona (magari diretta superiore) mette in dubbio le tue capacità, respinge le richieste senza un motivo valido, o parla male di te e di ex collaboratori e collaboratrici con altre persone. O ancora, ti ascolta distrattamente mentre hai cose importanti da dire, ti interrompe mentre parli, sminuisce i tuoi problemi, ti critica apertamente davanti ad altre persone in ufficio. Oppure dimostra di non fidarsi di te non assegnandoti responsabilità e controllandoti. O magari non prevede promozioni, la necessaria formazione, step di carriera, insomma i riconoscimenti per il lavoro svolto.
E se pure le persone bianche, eterosessuali, cisgender, abili, giovani, neurotipiche hanno subìto discriminazioni sul lavoro e mancanza di rispetto – magari perché donne o perché giovani o anziane –, posso solo immaginare chi non è in questa posizione privilegiata (ottenuta non per meriti). Spesso ancora accade, purtroppo, che chi non fa parte della maggioranza non passa nemmeno dalla fase di selezione per un posto di lavoro.
Il vantaggio innato si può però sfruttare per diventare una persona alleata, che agisce e sostiene con empatia i gruppi non dominanti, quando percepisce le ingiustizie e le microaggressioni a loro rivolte.
È nostra responsabilità agire, dopo aver preso coscienza e consapevolezza del privilegio.
Per chi volesse approfondire il tema del “privilegio bianco“, consiglio la lettura di Peggy McIntosh intitolata White Privilege: Unpacking the Invisible Knapsack.
Negli anni Ottanta McIntosh lo definì “zaino invisibile“, privo di peso ma con numerosi vantaggi all’interno, non guadagnati o meritati, solo perché correlati al colore bianco della pelle con cui si nasce. Lei elencò ben 50 benefit, tra cui – ad esempio – passaporto, vestiti, make-up, alloggio,….
I vantaggi della leadership inclusiva
Di lavoro da fare per avere imprese inclusive ce n’è ancora, forse soprattutto nelle piccole e medie imprese, ma si sta diffondendo questa cultura aziendale.
Creare un ambiente equo e inclusivo al lavoro comporta pure numerosi vantaggi competitivi per le imprese:
– chi lavora è felice e parla bene dell’azienda e di chi la guida (è la prima regola del branding);
– non c’è più un grande ricambio di persone (un tasso elevato di turnover non è mai una bella carta di presentazione);
– aumentano la produttività, la creatività e lo spirito di collaborazione, perché calano lo stress, la frustrazione e l’insoddisfazione;
– crescono l’innovazione, le quote di mercato, la competitività, i profitti dell’impresa;
– il brand gode di ottima reputazione e diventa in grado di attirare talenti diversi, con background differenti, idee e punti di vista alternativi;
– la clientela si riconosce pienamente nell’azienda, perché rappresentata;
– la forza lavoro è fidelizzata e i costi operativi si riducono a fronte di meno assenze, azioni legali, turnover.
Certo, non devono essere solo i vantaggi, o il marketing, a spingere le aziende a impegnarsi nella D&I e nell’equità, ma perché non provare a esercitarla e a coltivarla, considerati anche i numerosi benefici!
E chi lavora, varcherà ogni giorno la porta con il sorriso, invece che con l’ansia, l’assenza di motivazione e la voglia di scappare a casa.
Alcuni articoli per approfondire i temi:
Peggy McIntosh e il white privilege:
https://nationalseedproject.org/Key-SEED-Texts/white-privilege-unpacking-the-invisible-knapsack
Generazione Z e inclusione:
https://valored.it/news/generazione-z-il-futuro-del-lavoro/
Millennials e inclusione:
https://www.ferpi.it/news/diversita-e-inclusione-tema-caldo-per-i-millenials
I vantaggi competitivi dell’inclusione:
https://forbes.it/2018/09/24/adecco-diversita-vantaggio-competitivo/
https://www.mark-up.it/diversita-e-inclusione-per-generare-valore-economico/