Il linguaggio inclusivo: cos’è e alcuni esempi - Cuciverblog
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tre persone sono sedute su una panca in un museo e guardano un'opera composta da moltissime foto in bianco e nero di persone giovani, anziane, donne, uomini, nere, bianche, asiatiche. il linguaggio inclusivo rappresenta tutte le comunità meno rappresentate

Il linguaggio inclusivo: cos’è e alcuni esempi

«Non si può più dire niente!»: quante volte ti sarà capitato di sentire questa frase? Di recente, nel nostro Paese si parla sempre più di linguaggio inclusivo ma, ahimè, in risposta si sente pure gridare contro la scure del “politicamente corretto”, se così si può definire. Ci tengo a chiarire che l’inclusione non c’entra con la censura, c’entra invece con l’ascolto, il dialogo e le richieste di rappresentazione. Non si vuole censurare nulla. Ogni persona è libera di dire ciò che vuole, l’importante è che non offenda. Il “politicamente corretto”, infatti, lo ritengo sinonimo di rispetto, non di censura ipocrita da parte di persone moraliste benpensanti, come accadeva nella musica o in tv nei decenni scorsi. Messaggio che invece intende far passare chi è contro il linguaggio inclusivo, agitando lo spettro della cancel culture solo per difendere lo status quo e, di conseguenza, ridicolizzare chi chiede di utilizzare parole più rispettose.

Tornando all’oggi, se le persone nere, vittime di razzismo sistemico, chiedono che non si usi la “parola con la N” (ne*ro/a), perché rimanda a brutte pagine della storia (colonialismo, schiavitù,…) e a vissuti dolorosi, è doveroso non utilizzarla. Le persone bianche, non avendo subìto episodi di discriminazione, forse faranno più fatica a capire o a cogliere questa richiesta, ma non sono loro a dover gridare alla censura del “non si può più dire niente”, perché non sono ferite da questa parola. Dal momento in cui, spiegato il motivo, ne siamo consapevoli bisognerebbe, per rispetto appunto, prestare attenzione a quello che si dice e non usare più quella parola con la N. Ne abbiamo la responsabilità.
Così, se le persone cieche non vogliono essere definite “non vedenti”, è giusto non caratterizzarle per  una negazione in cui si colloca lo stigma.
E ancora, se due comici in televisione ci dicono che è ironico e fa ridere usare parole come “froc*o” o “ricchi*ni” e “ne*ro”, non spetta a loro dirlo. Perché uomini, bianchi, eterosessuali e cisgender che non sono mai stati oggetto di offese e violenze per il colore della pelle o l’orientamento sessuale. Poi, non ci trovo nulla da ridere.

C’è insomma uno splendido mondo fatto di riflessioni, studi e attivismo dietro a una parola o a una definizione.
Il linguaggio inclusivo è un percorso di ascolto e apprendimento costante. È delicato, certo, e si può avere paura di sbagliare nella scelta delle parole per rivolgerci a un singolo individuo o a una comunità. Servono rispettoapertura e una dose di empatia. Se non si fa parte di tale comunità, infatti, non si può pensare di conoscere il vissuto di ciascuna persona, né di parlare per conto di essa (è il concetto di “passare il microfono”). Però, per vincere il timore, si possono fare domande direttamente a chi ci rivolgiamo o al gruppo stesso, oppure leggere e seguire chi fa attivismo sui social proprio sui temi che ci stanno a cuore, per poi agire da persone alleate. Io ho imparato molto dai contenuti (post, webinar e dirette social) resi disponibili  – gratis –  anche da chi, per professione, presta attenzione a questi temi e ha più esperienza di me.

Non giudico chi non ha questi riguardi: il linguaggio inclusivo, infatti, non è e non va imposto dall’alto, come un dogma.
Io stessa ho fatto (e sto facendo, perché non si finisce mai di imparare e di ascoltare) un percorso di consapevolezza per riconoscere parole, mentalità, bias cognitivi, modi di dire ed espressioni che possono essere sessiste, stereotipate, oppure razziste e abiliste, magari anche senza saperlo. Sono cresciuta in una società patriarcale e bianca, da eterosessuale, cisgender, con la possibilità di frequentare l’università. Riconosco il mio privilegio (che non deve essere visto come una colpa) e capisco che da ragazza, insicura e un po’ sfigata, come mi ritenevo, ho sostenuto alcune delle idee o degli stereotipi che appartengono al “maschio alfa”, non per motivi familiari certo, ma sociali. Ho interiorizzato il sessismo. Anche se la mia tesina all’esame di licenza media era sul femminismo, di strada da fare, una volta adulta, ne avevo tanta prima di diventare consapevole. Si cambia e sono felice di questo.

In questo articolo che stai leggendo – di cui ho rimandato la scrittura, perché delicato e impegnativo, ma fondamentale, occupandomi proprio di copywriting inclusivo – voglio spiegare, nel mio piccolo, alcune questioni a cui tengo: definire e capire perché scegliere il linguaggio inclusivo e i femminili professionali e citare alcuni piccoli ma importanti progressi che si stanno compiendo.

L’articolo è corposo e lungo quindi, per comodità, ti lascio l’indice:
cos’è l’inclusione?
il linguaggio inclusivo cos’è?
cos’è la comunicazione inclusiva?
definizione di abilismo, inspiration porn e ageismo
genere e linguaggio: lo schwa (e come si pronuncia), l’asterisco e il maschile sovraesteso
i femminili professionali
perché comunicare in modo inclusivo?
esempi: chi ha scelto l’inclusione

volti stilizzati in bianco e nero di persone che si incontrano e comunicano

Cos’è l’inclusione?

La nostra è una società complessa e sfaccettata in cui sono presenti, per fortuna, splendide differenze e molteplicità: è giusto e bene che convivano e che ciascuna sia rappresentata in tutti i campi (politica, media, professioni,…). E poi, che noia se ogni persona fosse uguale all’altra!
Ma vediamo cosa si intende per inclusione. La definizione di Treccani è “l’atto, il fatto di includere, cioè di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto”.

Fabrizio Acanfora, scrittore, accademico, blogger e attivista, suggerisce di superare il concetto di “inclusione” perché “l’inclusione è frutto di un pregiudizio che esprime una dinamica di potere verticale, espressa dalla maggioranza normale sulla minoranza diversa, la quale riceve come un dono (quando non un’elemosina) il permesso di essere “inclusa” nonostante le differenze“. Acanfora propone allora il concetto di “convivenza delle differenze“, in quanto “termine neutrale che presuppone pari dignità per ciascun gruppo socioculturale e ciascuna persona. Convivere vuol dire rispettarsi, fare passi gli uni verso le altre, preoccuparsi delle esigenze di tutte, mettere da parte l’orgoglio e ammettere che la nostra visione del mondo è guidata da pregiudizi che spesso non siamo coscienti di avere, e che prestando attenzione alla narrazione della realtà che facciamo a noi stessi e al mondo possiamo contribuire al benessere di tutte“.
Per approfondire, puoi scaricare il testo di Acanfora “La diversità è negli occhi di chi guarda“, da cui sono presi i passaggi in corsivo.

In sintesi, inclusione significa rappresentare le differenze e le molteplicità nel modo più corretto e rispettoso possibile, dando loro spazio. Come? A partire dalle parole e dalla narrazione, quindi dalla comunicazione. E quali sono dunque le molteplicità che compongono e arricchiscono la società? L’età, il genere, l’orientamento sessuale, il corpo non conforme, la disabilità, la religione, il Paese di provenienza, e molte altre.

Il linguaggio inclusivo cos’è?

È un linguaggio che, in sintesi, accoglie le differenze e le molteplicità e si basa su rispetto ed empatia: non discrimina ed è accessibile (non settoriale né burocratico). Significa dunque ascoltare categorie e comunità – le esperienze, le istanze, i problemi, i bisogni annessi – e adottare le soluzioni proposte dal punto di vista della lingua, preferendo alcune parole ed espressioni ed evitandone altre.
In Italia il linguaggio inclusivo si identifica soprattutto per questioni legate al genere (neutro, femminili professionali e maschile sovraesteso): per approfondire rimando al paragrafo dedicato, qui più sotto.

Il linguaggio inclusivo inoltre non fa uso di stereotipi, cliché o bias cognitivi (con cui funziona il nostro cervello per semplificare la realtà) offensivi, talvolta pure supportati da modi di dire. Del tipo? Le donne non sanno guidare (“donna al volante pericolo costante”); i criminali sono perlopiù stranieri. Sono pregiudizi offensivi perché discriminano e rafforzano una credenza che non trova riscontro nella realtà e nei dati: le donne sono meno coinvolte negli incidenti e hanno torto con meno frequenza, come si legge nel recente articolo di Infodata de Il Sole 24 Ore.
E ancora, nel nostro Paese a un aumento dell’immigrazione si è riscontrata, al contrario, una diminuzione nel tasso di criminalità, spiega questo articolo de Ilpost.it.
Per evitare pregiudizi e stereotipi occorre, dunque, porsi numerose domande e provare a mettersi nei panni di chi di solito li subisce.

Cos’è la comunicazione inclusiva?

Di riflesso, anche la comunicazione inclusiva è strettamente legata al linguaggio inclusivo e comprende pure la narrazione per immagini: tiene conto delle differenze e cerca di non rappresentare un mondo stereotipato, offensivo, che non rispecchia (più) la realtà.
Spesso i media, non solo dal punto di vista giornalistico, ma anche per le pubblicità veicolate, sono il non-luogo più ricco di narrazioni stereotipate, e pure il mezzo più potente, perché arriva a numerose persone. Non che i social non siano tempestati di razzismo, sessismo, abilismo, e molto altro, ma presentano ottimi anticorpi grazie al lavoro e alla passione quotidiana di molte attiviste e attivisti, dove proprio nei social hanno voce e spazio.

Dicevo, meno inclusivi sono i media, a parte alcune testate, perlopiù online, che svolgono un ottimo lavoro di informazione. Ad esempio, la conduzione di Sanremo 2021 si è caratterizza per stereotipi di genere e abilismo; Striscia La Notizia è spesso al centro delle polemiche per razzismo con imitazioni offensive di persone nere e asiatiche. Alcune serie televisive del servizio pubblico hanno minimizzato il tema degli stupri, in un Paese dove la violenza di genere e i femminicidi sono all’ordine del giorno, e una famosa attrice ha affermato, sempre in un programma Rai, di non piacersi in una foto perché sembra una (parola con la N) nera. E ancora, sulla carta stampata le persone sono molto spesso identificate solo per il genere (se donne), la disabilità (se disabili), la nazionalità (se straniere) invece che, ad esempio, per la professione. Per citare alcuni casi.

La pubblicità poi ci vuole con corpi scultorei e asciutti, depilati, in forma, bianchi (ovviamente), abili (certo), giovani (eh beh), conformi al genere (ci mancherebbe).
E noi donne? Come se avessimo mille braccia per poter avere in mano aspirapolvere, padella, biberon, straccio, mocio. Oppure madri premurose tuttofare, ragazze sessualizzate e oggettificate. Il regno dei cliché, insomma, che contribuiscono a perpetuare una certa narrazione della donna e della società patriarcale.

Che cos’è inclusivo allora? Ciò che non fa uso di pregiudizi, non discrimina e non stigmatizza e che, inoltre, facilita la comprensione a ciascuna persona. È inclusivo e accessibile ad esempio: inserire i sottotitoli in una storia parlata sui social, in un programma televisivo o in un film; scrivere e parlare in modo semplice, perché esistono diversi gradi di scolarizzazione e differenti età; preferire font (caratteri) grandi per dimensione e un’interlinea spaziosa; scrivere il testo alternativo – laddove è possibile (nel web e sui social) – per descrivere un’immagine a persone cieche o ipovedenti; evitare l’uso di emoticon perché, per chi utilizza screen reader (lettori dello schermo), a ogni emoji corrisponde una noiosa descrizione. Inoltre, un pittogramma, per noi carino e simpatico, in un’altra cultura può essere offensivo. Ne scrive approfonditamente qui Alice Orrù, copywriter inclusiva e traduttrice.
È inclusivo anche chiedere i pronomi alla persona con cui stiamo parliamo: può chiamarsi Maura ma utilizzare per sé pronomi maschili. Sono tutti piccoli ma importanti accorgimenti che denotano interesse e rispetto altrui.

Definizione di abilismo, inspiration porn e ageismo

In questo articolo ho nominato più volte razzismo, sessismo e abilismo. Credo che le prime due parole siano conosciute, la terza meno. Provvedo subito a spiegarla: l’abilismo è la discriminazione nei confronti di persone con disabilità che rafforza pregiudizi e tabù, definendole solo per la disabilità. Come andare oltre? “Riconoscendo che siamo tutti esseri umani, lottando per i diritti, esigendo la parità di opportunità e di trattamento, e chiedendo, informandosi, studiando, mettendosi nei panni degli altri” afferma in questo articolo Sofia Righetti, attivista e campionessa paralimpica di sci alpino.
A mio avviso – lo dico conscia dei miei limiti, non avendo disabilità – dovremmo vedere chi è disabile come una persona, senza concentrarci con la lente d’ingrandimento sulle sue disabilità.
E pure evitando espressioni pietiste, abiliste e stigmatizzanti come “soffre di”, “è costretta a”, “ha un handicap”, a volte usate anche per generare lacrime facili (penso a un certo tipo di tv e marketing).
Talvolta queste parole sono utilizzate in modo inconsapevole, in buona fede e senza l’intento di offendere, oppure per tabù. Però – come già detto – da quando viene fatta notare come offensiva una parola o un’espressione, o ne siamo già a conoscenza, è bene prestare attenzione a come ci esprimiamo. Perché, come diceva Nanni Moretti, “le parole sono importanti“.

L’abilismo, inoltre, va a a braccetto con l’inspiration porn (pornografia motivazionale, termine coniato dall’attivista Stella Young): una narrazione abilista della disabilità. Sono, ad esempio, quelle frasi che mettono in evidenza l’ammirazione per una persona disabile che compie azioni comuni, come lavorare e studiare. Quello che è sotteso in queste espressioni è “io mi lamento per certe cose ma c’è di peggio”, ed ecco che la persona disabile diventa così oggetto a favore di chi non è disabile.
L’abilismo, e le altre discriminazioni (razzismo, sessismo,…), talvolta sono subdole e radicate a tal punto che quelle che paiono innocue frasi celano invece delle microaggressioni.
Mi viene in mente, come esempio, pure l’ageismo, la discriminazione e il pregiudizio verso le persone per la loro età. Anche in questo caso si possono manifestare microaggressioni: parlare al posto della persona anziana quando la si accompagna a una visita medica; affermare che una persona è stata brava a fare una cosa nonostante l’età.

due persone anziane in una foto in bianco e nero camminano in un parco e hanno in mano buste della spesa

Genere e linguaggio inclusivo: lo schwa (e come si pronuncia), l’asterisco e il maschile sovraesteso

Un’importante precisazione che voglio fare è che anche il linguaggio inclusivo in ottica di genere non va e non è imposto. È una scelta che molte realtà, aziende, individui ed enti, stanno adottando, ma non è un dogma calato dall’alto.

La nostra bellissima lingua, l’italiano, assieme a numerose altre, è priva del genere neutro, che invece aveva il latino oppure hanno il tedesco e l’inglese.
Come fare allora per rappresentare le persone non binarie, che non si riconoscono nel genere maschile né nel femminile, e per superare il maschile sovraesteso (es.: se in un gruppo c’è un solo uomo, il plurale si declina al maschile)? Ci sono numerose e belle soluzioni, purtroppo non ancora molto accessibili: la lettera finale u, y, x, oppure l’*, la @ o lo schwa (al singolare “ə“, al plurale “з“).

Prima domanda che sorge spontanea: come si pronuncia lo schwa? È un suono che è presente nell’inglese ma anche in moltissimi dialetti italiani: una “e” emessa con la bocca rilassata.
Qui il breve video della sociolinguista Vera Gheno sulla pronuncia:
https://www.instagram.com/stories/highlights/17848588865141319/

Perché queste proposte, seppure valide, non sono del tutto inclusive e hanno dei limiti? Innanzitutto perché non sono presenti nella nostra lingua e dunque non vengono insegnate a scuola. Quando, per la prima volta, le si trova scritte è probabile l’effetto “shock because”. Mi immagino che leggere “ciao a tutt*” o a “tuttu”, “tutty”, “tuttx”, “tuttə” possa provocare stupore e straniamento all’inizio. Si può pensare che siano dei refusi, degli errori di battitura. Inoltre gli screen reader, utilizzati da persone cieche, hanno delle difficoltà: lo schwa spesso non viene letto (quindi l’effetto sarebbe “ciao a tutt”), al contrario l’asterisco è letto per intero ciascuna volta che il lettore di schermo lo incontra, quindi è fastidioso e distraente. Viene letto così: “Gentilissim-asterisco, l-asterisco alunn-asterisco che frequentano la prima media sono tenut-asterisco a entrare in classe alle ore 7:00”.

La soluzione che adotto nei miei testi di copywriting inclusivo è meno “rivoluzionaria” ma accessibile: utilizzo le perifrasi, delle formule per evitare un’identità di genere (ad esempio: “chi legge” invece di “lettore”, “personale medico” per “i medici”, “la classe” invece di “alunni”), oppure preferendo il termine “persona”. È una scelta stilistica che stimola la fantasia di chi scrive e, tra l’altro, nel testo non si nota con facilità. Quindi, in sintesi, non utilizzo asterischi, schwa, u, y per la mia clientela, a meno che non me lo chieda espressamente.
A volte uso, per velocità, lo schwa nel mio canale Instagram. Per averlo ho scaricato sul mio cellulare Android la tastierina di Google (qui il link per scaricare la Gboard, gratuita).

un primo piano in bianco e nero di parte del volto di una persona. A sinistra i capelli biondi lunghi, le mani con lo smalto e la bocca con il rossetto. A destra il volto è senza trucco, si intravedono la barba e della peluria sul torso nudo

L’italiano ha anche un’altra caratteristica poco inclusiva, e androcentrica, che ho menzionato poco più su, ovvero il maschile sovraesteso. È superabile anch’esso con le perifrasi o lo sdoppiamento dei generi (manca però quello neutro). Già nel 1987 la linguista e femminista Alma Sabatini nello studio “Il sessismo nella lingua italiana” mette in evidenza la questione,  suggerendo delle vie di uscita per rendere il nostro linguaggio meno sessista. La strada tuttora è lunga da fare ma Sabatini ha aperto un dibattito, ancora acceso.
Per chi vuole approfondire, qui il link alla sua ricerca.

Nel mio lavoro di copywriting inclusivo presto molta attenzione anche a questi aspetti di genere e li condivido appieno. Preferisco infatti scegliere “persone, gente, popoli, individuo, umano” a “uomo”. Oppure lo sdoppiamento: “le socie e i soci” a “i soci”; “le bambine e i bambini” oppure “l’infanzia” a “i bambini”; “le ragazze e i ragazzi” o “l’adolescenza” a “i ragazzi”, e così via. Non è neppure facile notare queste scelte nel testo, ma chi ha occhio o orecchio allenati li percepisce.

I femminili professionali

Un altro aspetto su cui è aperto un acceso dibattito sono i femminili professionali: la declinazione al femminile di nomi di mestieri e di cariche – soprattutto se di prestigio.
Sindaca, medica, ingegnera, chimica, matematica, architetta, questora, direttrice, procuratrice, notaia, rettrice, avvocata, prefetta, magistrata, ministra, pretora, assessora, arbitra, chirurga, cavaliera: sono tutti nomi corretti ed esistenti. Perché non utilizzarli?
Ingegnera, per esempio, è come infermiera: quest’ultima professione al femminile non ci fa storcere il naso perché la utilizziamo da anni. Al contrario, ingegnera (“ma non si può sentire” chioserà chi è contro) riflette un lavoro di recente accesso alle donne. E così i nomina agentis creano qualche fastidio a chi intende mantenere lo status quo.
La già citata linguista Sabatini aveva spinto per l’utilizzo dei femminili professionali già negli anni Ottanta e ora, ai giorni nostri, a dare magistrale risposta a tutte le obiezioni che oppone chi è contro è Vera Gheno, sociolinguista e autrice di numerosi libri che consiglio a chi vuole approfondire il tema. Qui il suo articolo super esaustivo per Valigia Blu.

una donna con i capelli lunghi, il camice, gli occhiali protettivi sorride in un laboratorio di ingegneria chimica

Se il nome professionale al femminile esiste in italiano, è corretto (e giusto) utilizzarlo. Se una donna, al contrario, preferisce definire il suo lavoro con una carica al maschile la sua scelta va rispettata, ma andrebbe indagato il motivo: è una questione linguistica (immotivata dunque) oppure di prestigio? Ipotizzo che una questora potrebbe scegliere di essere chiamata questore perché, ahimè per come funziona la società, la professione declinata al femminile potrebbe venire percepita di valore inferiore. Spero però resti un’eccezione temporanea.

Non nominando una professione al femminile si crea, inoltre, una certa confusione. Se dico “l’ingegnere De Robertis”, d’istinto penso a un uomo. Invece di nome, magari, fa Anna.
È importante riflettere sul ruolo delle parole perché sono potenti. Una parola descrive, identifica, include, oppure svaluta, offende, discrimina, rafforza pregiudizi.
Credo poi che sia giusto riconoscere il ruolo delle donne a partire proprio dalla lingua, perché appartiene a ciascuna persona. Riconoscere i femminili professionali è alla base della parità, che ha certo numerosi passi da compiere. La nostra società è cambiata e ora numerose cariche non sono più solo appannaggio maschile. Perché allora non testimoniare questo importante cambio di passo a partire dalle parole? Altrimenti all’orecchio comune tali professioni resteranno sempre maschili, e ogni donna sembrerà un’eccezione, in secondo piano. Penso anche a una bambina che – sentendo “sindaca”, “ingegnera”, “astrofisica”, “ministra” – può finalmente riconoscere queste professioni non più come lontane dal suo genere e, associandole ad esempi concreti, sa che un giorno potrà esserlo anche lei.
Perché, come scrive Vera Gheno: “Succede che ciò che non viene nominato tende ad essere meno visibile agli occhi delle persone“.

Perché comunicare in modo inclusivo?

La domanda da un milione di euro. Scherzo. Comunicare con un’attenzione all’inclusività significa essere persone rispettose o aziende sensibili a rappresentare tutte le differenze che fanno parte della società, di conseguenza anche della clientela.
A me, ad esempio, crea un certo fastidio, perché non mi riconosco, ricevere (anche da organizzazioni non governative) una e-mail o una lettera in cui trovo scritto “Benvenuto, Silvia” oppure “Vuoi restare aggiornato sulle prossime iniziative?”. Esistono modalità e formule diverse per comunicare in modo più attento: “Ciao Silvia” oppure “Ti diamo il benvenuto, Silvia”, “Che bello saperti qui, Silvia”, “Non vuoi perderti le prossime iniziative?”.

Se apri la porta alla vicina di casa non dirai «prego, entra, sei benvenuto», ecco perché sarebbe meglio non farlo nel sito e nei canali di comunicazione di un brand, personale o meno.
Questo è proprio il mio lavoro: scrivere e comunicare pensando a tutte o a più persone possibili perché nessuna si senta esclusa. Per approfondire rimando all’articolo di Luisa Carrada, business writer e language designer, intitolato “Ma io sono una signora!“.
In tal caso, l’esempio che ho fatto riguarda il solo genere, ma quando si comunica bisogna tenere in considerazione che ci rivolgiamo a persone che possono essere anziane, disabili, cieche, sorde,…

E il pubblico come reagisce? Percepisce l’attenzione e la apprezza. La scrittura inclusiva ha il potere di tessere relazioni e di arrivare a più persone possibili. Perché allora fare leva sull’esclusività? Chi consuma ora è molto più sensibile a questi temi. Se sei un brand, ascolta il tuo target, dagli valore e valutalo come un insieme ricco di differenze.
È importante però che chi adotta un linguaggio e una comunicazione inclusivi non lo faccia solo per marketing (cioè vendere di più): è il fenomeno del woke washing. Mi spiego, se il brand non crede in questi valori e non è coerente nelle scelte e nelle politiche adottate, all’interno dell’azienda e non solo, è meglio che non usi una comunicazione e un linguaggio inclusivi. Innanzitutto per una questione etica. Poi perché il pubblico, in particolare la generazione Z, se ne accorge e percepisce questo cambio di rotta come una forzatura, ai fini della sola vendita, e potrebbe essere un boomerang anche mediatico, in primis sui social.
Spiega bene il concetto Paolo Iabichino – scrittore pubblicitario, direttore creativo e fondatore dell’Osservatorio Civic Brands -, in questo recente articolo pubblicato su Luce.
Freelance, aziende e associazioni che invece sposano valori come la parità di genere, l’inclusione di persone disabili, nere, non binarie,… – al contrario e proprio per coerenza – è bene che adottino la comunicazione e il linguaggio inclusivi. Così facendo, inoltre, non escludono parte del target per una disattenzione verso le persone.

una mamma nera seduta sul divano allunga il braccio tatuato verso una o un neonato vestita/o di bianco. La donna è vestita sportiva, ha un seno e la pancia scoperti. Dietro di loro, sulla parete, un quadro.

La campagna Nike “The toughest athletes” per la collezione dedicata a sport e maternità.

Esempi: chi ha scelto l’inclusione

Ora vengo alle buone pratiche, di cui è sempre una soddisfazione parlare.
Sono molteplici, ma mai abbastanza, le realtà che hanno adottato la comunicazione inclusiva, a partire dalla Pubblica Amministrazione. Qui di seguito ne riporto alcune, ma ce ne sono molte altre:

– Il Comune di Castelfranco Emilia (Modena) da poco utilizza lo schwa nei canali social https://www.facebook.com/cittadicastelfrancoemilia/photos/a.1038946972872021/3329635780469784/;

– l’Agenzia delle Entrate nel 2020 si è dotata di “Linee guida per l’uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere“;

– La Commissione Pari Opportunità del Comune di Torino a dicembre 2020 ha approvato il “Protocollo Zero Stereotipi” per le campagne di comunicazione della Città, grazie anche al lavoro di sensibilizzazione di Hella Network https://drive.google.com/file/d/1qBf6CSCr-IkpxZsh6f2AUKMqNkumWG23/view?fbclid=IwAR2LOYm_0qJLCMY0e7Q3yfcdrN14gl937QexvMZqwEPxgm_IV_jg-8n8rQA;

– Nel 2018 il Miur-Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca ha emanato le “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del Miur“;

– Anche l’Università degli Studi di Padova dal 2018 utilizza un linguaggio inclusivo: https://www.unipd.it/inclusione/linguaggio-inclusivo;

– L’Ordine dei giornalisti (vabbè, è ancora al maschile) nel novembre 2020 si è dotato del “Testo unico dei doveri del giornalista, sì al rispetto delle differenze di genere, alla recidiva e ai principi sull’informazione scientifica e sanitaria“;

– La casa editrice Effequ utilizza lo schwa nei propri libri, così come Mondadori (ad esempio in “Belle di faccia. Tecniche per ribellarsi a un mondo grassofobico”), e Gruppo Gedi nel quotidiano La Repubblica e nel settimanale L’Espresso;

Zanichelli promuove la parità di genere nei libri con il progetto “Obiettivo dieci in parità“.

Come vedi, qualcosa sta cambiando. La nostra lingua, come tutte le altre, è sempre in evoluzione  perché rispecchia la realtà e la società, mai statiche, e descrive il mondo, così quando quest’ultimo cambia, la lingua muta di conseguenza. Non esiste dunque il “si è sempre detto così”.
La lingua appartiene a ciascuna persona che la utilizza ed è uno strumento democratico e, allo stesso tempo, un grande potere, da non sprecare.
Possiamo utilizzare i femminili professionali, parole più corrette e non offensive per rivolgerci alle persone, narrazioni non stereotipate e più rappresentative. È nostra responsabilità. Siamo noi a fare la lingua, quindi pensiamo a come possiamo dire le cose.

 

Se ti rispecchi nei temi trattati e vuoi che i tuoi testi, il tuo sito e, più in generale, la tua comunicazione siano inclusivi, contattami alla mail silvia@cuciverba.com

Chi sono? Una copywriter freelance appassionata di linguaggio inclusivo e di parità di genere. Da piccola ho iniziato a sviluppare una sensibilità verso le ingiustizie, negli anni del liceo si è plasmata la mia coscienza politica e, forse tutto questo, mi ha portata a iscrivermi e a laurearmi in Scienze Politiche – Relazioni Internazionali, curriculum “Istituzioni e Politiche dei Diritti Umani e della Pace”. Poco dopo la laurea, ho trovato lavoro in un’agenzia di comunicazione, che si occupa soprattutto di ufficio stampa, sensibile alle tematiche sociali e ambientali: ci sono rimasta per 12 anni. Dal 2021 sono freelance e aderisco a Hella Network.

Sul tema del linguaggio inclusivo ho scritto una filastrocca, intitolata "le parole sono importanti": Per le parole e i testi non hai cura? Fermati, non avere premura. Io ti dico: sono importanti, van trattati con i guanti! Aver rispetto per chi ascolta o legge dagli stereotipi ti protegge: ogni persona si sente inclusa e nessuna sarà delusa. Le parole uniscono come ponti, tessono relazioni su più fronti. Perché allora usare il maschile se il tuo pubblico è pure femminile? Non discriminar la gente per genere, età, corpo o continente,... non è per il "politicamente corretto": si tratta di rispetto. Una semplice filastrocca per dire che ogni parola ci tocca. Fa' dunque attenzione a cosa scrivi, non pensar solo ai congiuntivi.

Una mia filastrocca sull’importanza delle parole e del linguaggio inclusivo.

 

P.S.: sono molto felice della visibilità che ha ottenuto questo mio articolo. Poco dopo la pubblicazione, LinkedIn Notizie lo ha messo più volte in evidenza in occasione del Pride Month (leggi la notizia).
Ha segnalato questo mio articolo sul linguaggio inclusivo anche #Textures, la rubrica a cura di Giorgia Grandoni e Toni Muzi Falconi per CommToAction, gruppo di lavoro di Comunicazione d’Impresa (vedi la segnalazione).
E ancora, anche l’agenzia digitale Axura, nel suo blog, ne ha parlato, citandolo (ecco il blog post in questione).

 

 

Per approfondire i temi, una piccola selezione (di sicuro non esaustiva) di preziose fonti:

Comunicazione e linguaggio inclusivi

Hella Network, collettivo per la comunicazione inclusiva https://hellanetwork.com
Parlare civile progetto dell’agenzia stampa Redattore Sociale e di Associazione Parsec http://parlarecivile.it/home.aspx
Italiano inclusivo http://italianoinclusivo.it
Vera Gheno https://www.facebook.com/wanderingsociolinguist
Parole Ostili, il manifesto della comunicazione non ostile e inclusiva https://paroleostili.it/inclusione/
Eleonora Marocchini, psicolinguista https://narraction.wixsite.com/website/linkinbio
Sambu Buffa, consulente di marketing inclusivo https://sambubuffa.it/
Officina microtesti, user experience writing https://www.officinamicrotesti.it/
Alice Orrù, copywriting inclusivo https://www.aliceorru.me
Indig Communication, agenzia di comunicazione digitale, inclusiva e accessibile https://www.indig.info/

Media

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Persone attiviste e associazioni (temi: neuroatipicità, disabilità, body positivity, femminili professionali, femminismo intersezionale, culture ed etnie, antirazzismo, lgbtqia+):

Fabrizio Acanfora http://fabrizioacanfora.eu
Marina Cuollo www.marinacuollo.com
Sofia Righetti www.sofiarighetti.it
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Silvia
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